25 aprile 1982: una data che le persone meno giovani non possono facilmente dimenticare.
Quel giorno a Todi nello storico Palazzo del Vignola dove, come negli anni precedenti, era stata allestita la Mostra dell’Antiquariato un improvviso e devastante incendio distrusse tanti tesori d’arte là esposti ma, cosa ancor più tragica, strappò la vita a 35 persone tra le molte che ebbero la sfortuna di trovarsi all’interno nel momento in cui le fiamme divamparono.
Né tantomeno il ricordo di quel giorno può svanire dalla memoria di coloro che vissero di persona quel luttuoso evento affrontando il fumo e le fiamme per cercare di portare soccorso alle povere vittime. Le immagini che si presentarono agli occhi dei vigili del fuoco furono di così immensa tragicità che ancor oggi, a distanza di quasi 50 anni in questi uomini, pur abituati ad eventi e scene drammatiche, si risvegliano ricordi dolorosi.
La prova di ciò è nel racconto dell’ex Capo Reparto Adriano Mencaroni, nostro socio, che all’epoca era un giovanissimo pompiere alle prime armi e per la prima volta si trovava di fronte ad uno scenario che si può ben definire apocalittico. Egli, con la sua prosa scarna ed essenziale, riesce a farci percepire il pathos di quei momenti ed il frenetico affaccendarsi dei vigili per riuscire nell’estremo tentativo di raggiungere le vittime da soccorrere.
Riviviamo quei terribili momenti nelle parole di Mencaroni.
Scrivere tutti gli interventi particolari fatti in quaranta anni di servizio, sarebbe impossibile, sono stati tantissimi in un arco di tempo dal 1975 al 2015, anche da ausiliario; i militari oltre ai servizi vari e piantone alla porta, venivano inseriti regolarmente ed assegnati alle squadre e partecipavano a qualsiasi intervento del turno.
Ricordo i numerosi incendi abitazioni e capannoni, gli incendi di bosco e sterpaglie, salvataggi e soccorsi di persone ed animali, i numerosissimi incidenti stradali e purtroppo con tantissime vittime e salme incastrati tra le lamiere. Le nostre superstrade e raccordi erano molto più pericolose all’epoca, prive di barriere new jersey e con attraversamenti a raso.
Ricordo tantissime discese con scala a ganci e salite con scala italiana per semplici aperture di porte, dove non si poteva arrivare ed entrare con l’autoscala, spegnimenti di bombole di gas, allora molto usate sia per riscaldamento e utilizzate in tutte le cucine.
Tantissimi interventi di sgomberi stradali e recuperi con l’autogru, i valichi appenninici non erano ancora serviti da quattro corsie, nelle strade in forte pendenza e nelle curve pericolose avvenivano numerosi rovesciamenti di materiali e mezzi pesanti, specialmente d’inverno con neve e ghiaccio.
Vista la sismicità del nostro territorio ho partecipato a numerosi terremoti sia nella nostra regione Umbra sia a livello nazionale.
Ma l’intervento più significativo che tutt’oggi mi torna ancora in mente e che ricordo con una certa tristezza, ogni volta che percorro la superstrada da Perugia direzione Terni, è stata la tragedia di Todi, l’incendio del Vignola, dove si svolgeva una mostra di antiquariato. Quella colonna di fumo nero che si vedeva da lontano.
Ricordo benissimo la mattina del 25 aprile del 1982, giorno di festa; ero all’epoca vigile permanente e componente della squadra di seconda partenza; con alcuni colleghi commentavamo la guerra delle Falkland che la marina britannica sferrò alla Argentina, per la riconquista di una piccola isola inglese. La prima partenza uscì per un banale intervento e poco dopo intorno alle undici suonò la seconda partenza, per “incendio mostra a Todi palazzo Vignola”.
Uscimmo a bordo dell’APS 160 e la squadra era comandata dal capo squadra Diarena Gianfranco ed autista Giuseppe Chiaraluce; durante il percorso via radio cominciavano ad arrivare le prime notizie di un incendio grave con forse delle persone all’interno. Lungo la superstrada ci arrivò la vettura Comando con a bordo il Comandante all’epoca, Dott. Ing. Gianfranco Eugeni, che si posizionò davanti alla nostra autobotte e facemmo parte del percorso uno di seguito all’altro. Capimmo dall’enorme colonna di fumo nero che si levava dalla cima di Todi la gravità dell’intervento. Nella cittadina non vi era la presenza all’epoca di un servizio di Vigili Del Fuoco permanente. La lunga distanza dalla centrale e la ripida salita fino in cima alla città del Palazzo del Vignola non permisero di arrivare prima di quarantacinque interminabili minuti.
Al nostro arrivo si presentava un’immagine agghiacciante, fumo denso usciva dalle finestre del secondo e terzo piano fuori terra trascinato via dal vento verso i fabbricati circostanti, un odore acre ci infastidiva la gola. Con l’APS (autopompa-serbatoio – N.d.R) ci fermammo all’inizio della stretta via del Seminario dove si trova il palazzo, in corrispondenza delle finestre da cui usciva il fumo più denso.
Il caposquadra fece accostare il mezzo a non più di cinquanta centimetri dalla parete per permettere il passaggio di persone e di eventuali altri mezzi di soccorso. Lungo la parete vi erano alcune scale appoggiate, che a malapena arrivavano al primo piano, e alcune corde rimaste a penzoloni. Un ragazzo andava avanti e indietro in preda alla disperazione con le mani evidentemente bruciate durante la discesa con una di quelle corde, fasciate con bende di fortuna. In fondo alla via si vedevano persone trattenute dai Vigili urbani. In quel momento eravamo ancora inconsapevoli di quante persone fossero imprigionate all’interno; in seguito sapemmo che alcuni per sfuggire al fumo e alle fiamme si erano lasciati cadere dalle finestre, altri avevano trovato scampo saltando sul tetto di un camion portato sotto le finestre e imbottito di materassi.
“C’è una ragazza viva intrappolata al secondo piano!”, ci disse urlando una persona nelle vicinanze mentre stavamo scendendo dal mezzo.
La nostra autoscala era fuori servizio e fu inviata quella da Terni, ma al momento non era ancora arrivata. Era impossibile raggiungere con la scala italiana il secondo piano di quell’antico palazzo dai soffitti altissimi. Al capo partenza Diarena venne un’idea ammirevole, di montarla sopra l’imperiale dell’autobotte. E dopo aver comandato al vigile Giampiero Sciurpa di indossare l’autorespiratore e di ispezionare l’interno del palazzo e all’autista Giuseppe Chiaraluce di preparare le manichette pronte per l’acqua, “Saliamo sopra la botte!” ci disse a voce alta.
Salimmo in tre, il caposquadra, il collega Baldacchini ed io, che fui incaricato del montaggio. Prendemmo il pedone e appena appoggiato alla parete distante circa un metro, un metro e mezzo, salii e alla sommità, mi passarono il secondo pezzo; io lo sollevai sopra di me allungando le braccia il più possibile. Come da manovra allungai la gamba sinistra per distanziare le bussole del pedone ma in quel momento mi accorsi che il piede non arrivava alla parete.
“Non ci arrivo, tirate!”; allora i due colleghi con notevole sforzo iniziarono a tirare indietro.
“Ancora, ancora…Basta”; i due pezzi si allinearono e con un colpo secco innestai le relative bussole.
Immediatamente salii sul secondo e mi posizionai per ricevere il terzo pezzo che mi fu subito consegnato. Lo tirai su e lo spinsi in alto lungo la parete ma a differenza del castello di manovra dove il liscio tavolame di rivestimento fa scivolare agevolmente le bussole, in questo caso impuntarono sulla fascia marcapiano ben sporgente. A quel punto, facendo forza sulle sole braccia l’ho allontanata dalla parete e quando era quasi in verticale, rischiando che mi si rovesciasse addosso e mi tirasse giù facendomi la tanto temuta, famosa “cravatta del pompiere” la sollevai con le bussole oltre la fascia marcapiano. Allungai di nuovo la gamba per fare l’allineamento ma di nuovo il piede non arrivò alla parete.
“Tirate, più, più.. Basta”; al ché i colleghi, facendo un altro sforzo con le braccia tirarono indietro, finché altro colpo secco, e giù piegato a prendere la cimetta che il collega, stendendosi al massimo, aveva già appoggiato allo staggio. Infilato il braccio destro e portata alla spalla salii ancora, giunto nell’apposito gradino, da solo, visto che a quella quota la scala era meno distante e il piede arrivava alla parete, innestai anche quell’ultimo pezzo. Eravamo alla finestra del secondo piano.
“No al secondo piano, è al terzo”, ci disse la stessa persona con voce disperata.
Uno smarrimento totale ci assali. Io guardai giù dall’alto come a chiedere “che devo fare?” I colleghi presi dalla disperazione mi guardavano come se fossi io che da lassù potessi fare qualcosa.
“Scendi!” mi comandò il caposquadra.
Un’altra idea geniale gli era venuta in mente.
“Prendiamo la scala a ganci e agganciamola al davanzale della finestra del terzo piano!”
“Eccola!” disse il collega mentre la stava dispiegando dopo averla presa dall’apposito alloggiamento sopra all’imperiale.
“Passatemela!” disse il caposquadra che nel frattempo era già salito fino al secondo pezzo. Al che insieme al collega l’innalzammo fino a che lui poté prendere il traversino di ferro e continuare la salita; io salii dietro aiutandolo a sostenere il peso. Giunto al davanzale della finestra del secondo piano e salito su di esso, ad una altezza di circa quindici metri, senza che nessun assistente potesse aiutarlo a mantenere l’equilibrio come prescritto nelle manovre da manuale, con decisione la sollevò ancora.
“Alza ancora, ancora, ancora, ecco, basta, gira…aggancia!” gli dicemmo da sotto.
Al ché agganciò con cautela e testò che fosse stabile tirandola con forza verso il basso. Senza dire alcunché prese a salirla e in un attimo scomparve dentro la finestra da dove continuava ad uscire fumo. Poco dopo si affacciò dicendo: “Portatemi una corda!” Scesi a prendere una matassa dal cassettone sotto i sedili della cabina e ripartii per raggiungerlo al terzo piano. Le raffiche del vento facevano addensare e diradare in continuazione, vicino alla finestra, il fumo che continuava a provenire scurissimo e abbondante dall’interno, ed a momenti, si potevano intravvedere i contorni di ciò che stava a non più di un metro di distanza.
Scavalcato il davanzale andai ad appoggiare il piede sinistro sul pavimento quando sentii un qualcosa di morbido. Mi resi conto che il morbido erano dei corpi di quattro o cinque persone ammucchiati uno sull’altro, mi venne d’istinto un salto lungo ed evitai il pestaggio delle povere salme. Le stesse erano tutte insieme in prossimità della finestra, forse per respirare aria buona e pulita durante il lungo tempo intercorso, non vi era la presenza di fuoco, ma solo denso fumo e forte calore. Il caposquadra arrivato in precedenza aveva mosso i corpi per capire se ancora qualcuno respirava e fosse vivo, e una ragazza sopra di essi nel movimento aveva dato un forte respiro.
“Leghiamola, forse è viva” mi disse, e intanto incominciò a fare il nodo.
“Che nodo facciamo?”, chiesi.
“Nodo farfalla”, “il Torino”
Quando fu pronto il nodo per le gambe, ordinò “Infiliamolo, su su fino al bacino”.
Poi venne la volta che la corda doveva passare sotto le ascelle; non fu facile perché purtroppo la ragazza non poteva collaborare, bisognava sorreggerla.
“Il nodo di blocco, fatto”.
La portammo fuori, al davanzale della finestra e al personale sanitario sotto disse gridando: “Arriva una ragazza forse viva!”, “Giù, giù mandiamola giù!”.
Il davanzale della finestra faceva da freno alle corde e diminuiva lo sforzo che dovevamo fare con le nostre mani e braccia, “Ancora giù!” fin quando non arrivò a terra e il personale sanitario la prese in consegna.
Nel frattempo arrivarono altre squadre con altro personale, e l’autoscala del comando di Terni, in appoggio, e fu ultimato e domato l’incendio attaccandolo sia dall’esterno che dall’interno. In seguito fummo sostituiti con altro personale e purtroppo toccò a loro il triste recupero delle salme di 34 morti e decine di feriti.
Sono passati ormai tantissimi anni dall’evento ma certi ricordi sono difficili da cancellare.
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ADRIANO MENCARONI Capo Reparto in congedo – Comando VVF Perugia
(racconto tratto dal “curriculum” di Adriano Mencaroni pubblicato nella sezione “I curricula” di questo sito)